A cura di Andrea Manica

Paolo Piermattei è un cantautore e talent scout che non si è mai piegato alle mode. La sua storia è un viaggio nella musica d’autore, un percorso segnato da un’idea di arte che va oltre il successo commerciale. In un mondo musicale così artificioso, abbiamo la possibilità di affrontare, insieme a Paolo, un viaggio che riporta la canzone alla sua essenza.

Paolo, una canzone è capace di creare un legame duraturo tra le persone. Penso al tuo incontro con Lucio Dalla, nato dalla canzone “La strada e la stella”. Come è stato questo incontro?

Avevo un pezzo che mi sembrava buono – e quando hai per le mani una buona canzone, lo capisci subito – e volevo che Lucio me lo producesse. L’ho cercato e lui è stato subito molto disponibile. Ha ascoltato il brano insieme a me, mi ha guardato e ha detto: “Questa è una canzone vera! Mi piacerebbe cantarla, se non hai niente in contrario”. Quelle parole mi spiazzarono perché pensavo di interpretarlo io quel brano, ma in un attimo ho realizzato che la canzone gli piacesse davvero.

Cosa intendeva Dalla con “canzone vera”? E quanto manca oggi, nella musica, questa autenticità?

Per Lucio, una canzone vera era un’opera che raccontava qualcosa, non un semplice prodotto. Oggi, nel mainstream, la musica è intrattenimento, un insieme di slogan e riff accattivanti e studiati a tavolino. Manca l’anima, il respiro, quell’amalgama tra testo e musica che rende un brano indimenticabile. Si è persa la “verità”, l’unicità e la fragilità stessa dell’artista.

Sei stato anche talent scout per la Pressing Line, la storica etichetta discografica di Dalla. Cosa ti colpisce di un progetto musicale?

L’imperfezione, la suggestione. Mi spiego meglio: ho ascoltato per anni musica non prodotta. Spesso la voce o il testo o lo sviluppo musicale non erano perfetti, ma nelle canzoni interessanti comunque c’era una scintilla che mi colpiva, un’emozione che arrivava e ti coinvolgeva. È questo che cerco ancora oggi perché penso che se una cosa è vera, arriva sempre.

L’ultima domanda è complessa ma essenziale, perché tanti appassionati della parola d’autore cercano disperatamente questa “autenticità”. Cosa speri per il futuro della musica?

In effetti, è una domanda bella complessa! Nel mio piccolo spero che i giovani artisti superino l’omologazione e trovino il coraggio di essere se stessi, di dire qualcosa di unico. Inoltre, spero che i produttori e gli addetti ai lavori tornino a incentivare musica che “anticipa” i tempi, che non rincorre le mode, ma le crea. La sfida parte dall’incontro, dalla pazienza di costruire qualcosa di solido. Quando ti dicono: “Questa canzone ha un tiro radiofonico”, in realtà non si rendono conto che se è radiofonica vuol dire che sa di già sentito e per me non è una cosa positiva. Le canzoni che “dicono” qualcosa nuovo, di bello e interessante, ci mettono sempre tempo a essere “digerite” e capite. Sono comunque convinto che esista un fermento culturale che aspetta solo di essere scoperto e valorizzato.